mercoledì 21 luglio 2010

i'aint got to stay hier!

Il blues fu anzitutto una forma di contenuta rivolta all'oppressione, dalla quale si generò presto un canto di lavoro nero; e ciò nella sua doppia figurazione: (1)come lenimento di un male atavico: l’estirpazione dal luogo natio e l’insediamento in una terra inabitudinaria, un Oltreoceano, quando l’Atlantico, inconscio ai nativi d’Africa, ben presto divenne un’immensa gabbia liquida; e (2)come affezione del Tragico, ovvero la tonalità di una manifesta condizione di soggezione fisica e di un malcntento ad essa sudditante che queste grida prossime alla più verace naturalezza delle cose espressero.

L’interesse del macchiablues è, per quest’anno, riflettere a partire dalla dimensione rurale dei Fieldhollers (le grida dei campi di lavoro), come da quella coercitiva dei Chaingang songs (i canti dei lavori forzati di gruppo) per rioriginare fonti di un dibattito oggi cruciale: il malaffare e malumore del lavoro improprio, che, se allora potè essere alleviato (1)con l’ausilio della ridondante forma improvvisata call & response (la battuta di chiamata e la risposta corale), assai utile per ritmare la raccolta e il malsopportato trasporto dei materiali punitivi, rischia oggi di racogliere solo silenzi indifferenti.
Di quell’originario malessere l’industria musicale del novecento canonizzò il tormento nella forma a dodici battute, ripetitiva e insistente, accompagnata dal lamento ostinato ch’è divenuto, nel convertirsi a canto corale, espressione di speranza e monito d’incoraggiamento per concedere, a loro tempo, ai seviziati Neri d’America di farsi pionieri di una possibile emancipazione nei luoghi dello spettacolo, dai minstrel shows alle registrazioni del blues, per passare al jazz, forme compiute del compromesso tra gli usi bianchi su costume nero.
L'ascolto del blues divenne presto l’esercizio esorcizzante, per mezzo del canto, di quel triste umore che affannava l’animo; lo si doveva bandire, andava iellato. Lo si doveva urlare via per trascendere un’ineluttabile schiavitù concepita parte del diritto civile dei coloni e utilizzata, pavidamente, sul bacino di sfruttamento a loro più diretto.
E, come allora, sfruttati si è ancora oggi nella taciuta, ipocrita fattualità del lavoro “nero”, cugino di quello, e con il quale schiere di malcapitati nativi d’Africa, come anonimi malriusciti operai d’Italia, sembrano chiedere una via d’uscita e un’àncora di sopravvivenza: un’esistenza slegata dalla sofferenza e, pur originandosi da quella, speranzosamente rivolta all’utopia della liberazione.

Con questo festival s’è dato chiaramente un taglio alla sceneggiatura per potere ridestare nuovi discorsi sulle schiavitù odierne che la complessa offerta di lavoro crea, tracciare rettilinee tra la tratta degli schiavi e le migrazioni forzate che, non cessando, costituiscono lo snodo delle odierne politiche e subpolitiche del Mediterraneo.
Nel ritornare alle origini per capire il Blues, ci rendiamo conto dunque della urgente necessità che s’ha di tornare anche a riparlare della condizione attuale del lavoro: nero: perché tale è rimasta, nel nostro linguaggio comune e in quello delle istituzioni, quella fatica prestata a vantaggio d’altri e priva d’una regolamentazione, estranea alla legalità e invisa ai diritti del lavoratore: autentica forma di schiavizzazione, una Rosarno ove è passivamente accettato il potere irresistibile di un padrone sulla persona che ne dipende e l’arbitrarietà dello scambio ineguale tra i due;
ma nero esso è ancora e anzitutto perché, nella più vicina attualità, continua ad arrivare soprattutto da un continente, quello africano, che s’arrende, allora come oggi, alla schiavitù e ai bianchi, alle eccedenze delle multinazionali e ai loro consumi, incontrandoci quasi indifferenti, se non del tutto ignari che da una sponda all’altra della terra, attraverso il mare, trecento anni fa come ancor'oggi una moltitudine di volti s’accalca in cerca di dignità, ma ritrova al più il solo suo tormento,, e noi, occidentali, ritorniamo ai loro nostri blues.

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